Tra rifondazione e restaurazione

Il Napoli non avrà ancora chiuso i conti con il suo campionato più triste, tuttavia il pari con la Roma per 2-2 (rigori, una carambola e un presunto fuorigioco) li ha riaperti su un argomento che nessuno potrà definire sorpassato o lontano. Non c’è prossima e/o futura campagna acquisti che possa cambiare i destini di una squadra, se non verrà rivisto pure il metodo, ovvero la gestione dell’ apparato societario.

Paradossalmente, anche dal punto di vista della conduzione tecnica, si può forse dire che tenendosi l’allenatore di inizio stagione magari la squadra avrebbe fatto meglio. Il calcio non è uno spettacolino di colpi di magia, per quanto li possano sognare i tifosi e qualche addetto ai lavori. È un procedere per gradi, un percorso di competenze diverse che rispondono l’una all’altra.

Ecco perché nelle prossime gestioni se c’è una cosa che deve cambiare è proprio questa: imparare a separare la parte tecnica da quella societaria, ovvero rispettare l’autonomia di chi costruisce pezzo per pezzo un successo sportivo, e di chi sa resistere alle pressioni della piazza, occupandosi soprattutto della politica aziendale in senso stretto. Il campo, infatti, è tutt’altra storia.

Fin qui il ragionare su scenari prossimi venturi. Poi c’è la partita con la Roma che ha portato appena quel punticino  - del resto non poteva essere altrimenti - e niente più. 

Il primo tempo spiega tutto, da una parte la Roma messa male e a passo lento, dall’altra il Napoli che dà del suo meglio per sbagliare sotto porta: 14 tiri fuori.

Il peso di una squadra smarrita comunica anche uno straordinario senso di straniamento, quasi una distonia del sentire collettivo rispetto alle realtà che premono sul suo domani e sui destini attuali. Intendiamoci: c’è, eccome, un Napoli che può e deve essere rifondato, ma c’è pure da aggiungere che spesso, a causa delle angustie nostrane, le rifondazioni napoletane somigliano tanto a statiche e deprimenti restaurazioni. Speriamo che non sia più così.

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