Nelle crisi del Napoli c’era, e c’è spesso nell’azione quotidiana, un convitato di pietra: Antonio Conte. Per carità, persona degnissima e professionista di fama. Ma agitarlo come colui che può, o potrebbe, o potrà essere il deus ex machina del Napoli che verrà, non è serio. Soprattutto per qualcosa che, per dovere di cronaca, continuiamo a chiamare squadra, sempre di più vittima dei fantasmi che agitano l'immaginario suo e della gente del Napoli. Una squadra che non corre, non lotta, non vince. Che tra bugie colossali e vittimismi universali, s’è persa, ma non adesso. Già nella parte finale del campionato dello scudetto i segnali di involuzione c’erano. Basta sfogliarne i resoconti di allora e i segnali da interpretare. C’era scritto, tra le righe di pagelle e cronache, che si stava consumando un’impresa irripetibile. Tuttavia l’eccezionale scudetto era riuscito a nascondere la portata delle prime crepe.
E poi ancora: quel detto e non detto di Spalletti, ormai lontano dal suo miracoloso campionato. Ricordare ora la sua frase d'addio fa un certo effetto: "Se non si può dare quello che merita la piazza, è giusto arrivare a una conclusione”.
Ecco, forse è proprio questa la storia di uno dei casi più incredibili di dissoluzione calcistica, il più rapido che si ricordi. C’è da temere che il declino dei campioni non sia finito a Torino, dopo la stagione lodata, attesa, acclamata. Sperduto nella sua solitudine, il Napoli cammina tra ferite vecchie e nuove. Due casi, un paradigma. Osimhen da giorni è già in Nigeria in attesa della Coppa d’Africa. Ha parlato da maggio in poi solo di soldi e clausole, torni e in silenzio lavori per salvare il salvabile. Zielinski pensa da Inter , ma gioca nel Napoli. È un clima anomalo, tra giocatori annoiati e contemplativi. Tra annunci e illazioni di un mercato riparatore che dovrebbe riparare gli strappi di uno scudetto perso il giorno dopo averlo vinto.
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