La foto iconica ritrae nel suo stadio, nella sua città, tra la sua gente, Lorenzo Insigne con i suoi compagni e a bordo campo l’allenatore e la panchina: tutto il Napoli e Napoli unite nel lungo abbraccio al loro ragazzo, in un arcobaleno di gioie e rimpianti, sorpassi e controsorpassi di emozioni, come se fosse un Moto Gp.
Certo non è più un ragazzo, Lorenzo Insigne, anche se non ha mai smesso di sembrarlo pur con qualche filo bianco tra i capelli e qualche cicatrice in più sulle ginocchia. L’ossessione gli è rimasta, pura e nitida: quella di Insigne si chiama separazione, quella che lo dividerà dalla sua Napoli. Come un amore finito sul più bello, a un passo dal matrimonio. Ossessione rara, in un mondo calcio-centrico, e rara ancor più per un giovane uomo che esce e va via dal suo mondo azzurro. Ma il suo addio ha un motivo, e quel motivo ha un nome e delle coordinate. Una città del calcio, spesso matrigna, che ti attira e ti respinge e una ruggine rimasta tale tra lui e il “delaurentismo”. Certo, Insigne lascia Napoli per Toronto e per un bel mucchio di milioni. Ma io gli riconosco sino all’ultimo tormento dell’anima, altrimenti mi nevicherebbe dentro.
Era un bambino quando, nel 2011, il Pescara, si prese lui e un altro della nidiata napoletana: Ciro Immobile. Insigne diventó Insigne, soddisfacendo il più tradizionale quanto imprevedibile cliché della cenerentola che diventa regina. O, come forse amano di più da queste parti, dello scugnizzo che diventa uomo. Lorenzo Insigne era il bambino che oggi è l’icona di questo suo trionfo.
Ah, già, dimenticavo: il Napoli ha battuto il Genoa 3-0 (e lui, Lorenzo, ha segnato l’ultimo suo gol su quel prato) e ha terminato il campionato al terzo posto. Tuttavia ora si ricomincia, la storia azzurra continua.
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