Il ritiro di Lynn Greer. Come Maradona. Anzi, di più

"Ci ho pensato nel corso degli ultimi due anni. Una cosa che mi è mancata è l'aver passato del tempo con mia moglie e mio figlio, che sta crescendo. Ora ha 13 anni ed è anche un buon giocatore di basket, non può più seguirmi". Arrivano in una torrida serata d'inizio estate, in totale controtendenza ai versi di shakesperiana memoria, le ennesime picconate al cuore e all'anima degli appassionati napoletani di basket. Lynn Greer ha detto basta, il suo fisico ha pagato l'ultimo e definitivo tributo a Chrono, ponendo fine a una carriera durata 13 anni e che ha visto nell'uomo da Temple un predicatore meraviglioso del verbo della palla a spicchi. Carpisa Napoli e Olimpia Milano in Italia, una fugace apparizione in Nba con i Milwaukee Bucks poi Ulker, Unics Kazan, Azovmash Mariupol, Darussafaka le tappe di un viaggio irripetuto e irripetibile: uno dei migliori playmaker mai visti all'opera nel vecchio continente e non segue dibattito.

Proprio per questo il senso di smarrimento è tanto. E ci perdonino i puristi, quelli per i quali oltre il calcio c'è poco o niente, in questo momento noi amanti della 'spicchia' all'ombra del Vesuvio ci sentiamo come se si fosse ritirato Maradona. Un paragone che solo i superficiali bollerebbero come assurdo o campato in aria. Perché, seppur in epoche ed ambiti diversi, sono molti i tratti in comune tra i due. Entrambi tra i grandissimi del loro sport pur nelle loro ridotte dimensioni fisiche, entrambi artefici di quel meraviglioso sogno collettivo chiamato scudetto, entrambi ambasciatori privilegiati della napoletanità in giro per il mondo. Con una sostanziale differenza. Diego ha avuto la fortuna di godere, nell'epico tramandarsi delle sue imprese, di quell'imponente cassa di risonanza che è lo sport più giocato del pianeta; Greer no, ha dovuto (ri)costruire tutto dalle fondamenta. Riuscendo a guadagnarsi gloria imperitura in un lasso di tempo relativamente breve e di molto inferiore rispetto al suo nobile omologo della pedata.

Un anno, solo un anno, quel 2005/2006 che non potrà essere mai più dimenticato. Sufficiente per cullare quella meravigliosa illusione che oltre al calcio ci fosse molto di più, che la soddisfazione di un riscatto sportivo della città potesse venire da altri che non fossero gli undici di azzurro vestiti che, contestualmente, arrancavano nei polverosi campi della Serie C. Illusione supportata da robusti fatti: la Coppa Italia vinta alle final eight di Forlì contro Roma, il sogno tricolore sfumato in semifinale contro la Bologna di un giovanissimo Belinelli, la qualificazione all'Eurolega. Vette mai toccate né prima né dopo. E, primus inter pares di una squadra solida e vincente, lui, il nativo di Philadelphia capace di portare un pò dello spettacolo della Nba in quell'ammasso di ferro e lamiera che era (è) il PalaBarbuto. D'un tratto il fine settimana aveva ben due riti pagani da officiare e non era raro scegliere di andare a vedere gli 'altri', giusto perché il numero 14 poteva avere in canna l'ennesima prestazione da record. Qualcosa di mai più visto a queste latitudini, una roba che ti riempiva gli occhi e l'anima e ti faceva tornare contento a casa, indipendentemente da quale fosse il risultato finale. Con, in più, un piacevole corollario sul piano sociale: i giardinetti di via Ruoppolo e gli spiazzi fuori allo stadio Collana (ritrovi storici per i cestisti amatoriali made in Naples) tornarono a riempirsi, i corsi di minibasket avevano lo stesso numero di iscrizione delle scuole calcio, l'idea di una cultura sportiva diversa cominciava lentamente a prendere piede tra i più giovani. 

Ma il brutto di un'illusione o di un sogno (collettivo o meno) è che prima o poi finisce. Tempo dodici mesi e Lynn se ne va, scegliendo di seguire il sentiero della propria ambizione per giungere alle porte di quel paradiso dorato che è la Nba. E' il classico inizio della fine. Pian piano vanno via tutti: Sesay, Morandais, Larranaga, Mimmo Morena, Mason Rocca, Stefannsson, Cittadini, Spinelli. Niente resta della squadra capace di far sognare un'intera città. E, in una sorta di amaro filo rosso, al declino della franchigia (culminata nei fallimenti in serie degli ultimi tempi) corrisponde anche quello individuale di tutti questi protagonisti. Incapaci di tornare ai livelli d'eccellenza partenopei. Tutti, nessuno escluso. Nemmeno Greer che nel successivo decennio si trascina in una triste e vana ricerca di se stesso ai quattro angoli del globo. Fino alla decisione di cui sopra, che ci rende meno bambini incaapci di sognare e più uomini ancorati alla fredda realtà dei fatti.

Della condizione in cui versa la pallacanestro napoletana abbiamo già detto tempo fa. Una ferita impossibile da suturare e che, probabilmente, continuerà a sanguinare ancora per molto. E allora, mai come oggi, più che ribadire lo sconcerto verso una situazione drammatica e paradossale allo stesso tempo, non resta che attaccarci ai ricordi. Quelli più dolci, quelli che ti strapperanno sempre e comunque un sorriso.

La prossima stagione saranno dieci anni esatti. Dieci anni da quella stagione, durata lo spazio di un attimo, in cui tutti abbiamo creduto che un'altra dimensione sportiva fosse possibile. Con un uomo solo al comando. 

Grazie lo stesso, Lynn Greer. Anzi, grazie di tutto. 

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