Da qualche ora si sta assistendo a un paradosso. Due termini apparentemente dicotomici e contrapposti come "internazionalizzazione" e "ridimensionamento", stanno invece andando a braccetto. Merito o colpa di Maurizio Sarri, indicato da Aurelio De Laurentiis come successore di Rafa Benitez sulla panchina del Napoli. Prevedibili, immediate, scontate, le critiche alla scelta del presidente, colpevole di aver scelto un tecnico simbolo di un "ridimensionamento" nel processo, tecnico e non solo, di "internazionalizzazione" della squadra: reduce da una stagione deludente, dal mancato approdo ai preliminari di Champions League e con Rafa Benitez felicemente accasatosi al Real Madrid.
Ma cosa significa davvero "internazionalizzazione"? Cosa si nasconde dietro un concetto solo all'apparenza spiegabile dal curriculum europeo di questo o quell'allenatore? Di più, molto di più. Forse troppo, per riuscire a capire fino in fondo. Partiamo da un dato oggettivo. E' indubbio che, dal punto di vista del pedigree internazionale, tra Benitez e Sarri il paragone è improponibile. Anche, se non soprattutto, considerando le piazze in cui i due hanno allenato. Benitez ha vinto ovunque sia andato (Valencia, Liverpool, Inter, Chelsea, Napoli), di Sarri si è avuto modo di apprezzare l' idea di gioco solo in questa stagione, fatti salvi i pochi che lo seguono, con affetto e stima, da tempi di Sorrento e Alessandria. Trofei? Non si comincia nemmeno: 13-0, secco e inappellabile.
Però c'è un però. Grande quanto una casa o, se preferite, una panchina. Poiché non di sole coppe vive un allenatore, quanto di idee, progetti, propositi, intuizioni. E, da questo punto di vista, il toscano nativo di Bagnoli non ha niente da invidiare al pluridecorato figlio di Madrid. E la dimostrazione arriva proprio dall'ultima stagione, da quell'Empoli dei miracoli applaudito in tutt'Italia e protagonista di due memorabili lezioni di tattica proprio al Napoli di Rafa Benitez. Una squadra, quella di Sarri, corta, compatta, con la giusta distanza tra i reparti, propositiva, mai votata al catenaccio ad oltranza, ma con una precisa idea di gioco da perseguire sempre e comunque, indipendentemente dagli avversari che si avvicendavano domenica dopo domenica: in una parola "inernazionale". Anche se l'allenatore non ha mai calcato i palcoscenici europei, anche se i top player non si chiamano Higuain, Callejon e Mertens, ma Rugani, Valdifiori, Tonelli e Mario Rui.
Ed è qui, attorno a tutto ciò, che ruota il reale significato di "internazionalizzazione". Che non è legato al nome altisonante di un allenatore, di un centravanti o di un trequartista, bensì alla forza delle proprie idee di calcio, applicabili indipendentemente dagli interpreti. E da questo punto di vista, non ce ne voglia Benitez, ad essere in vantaggio è proprio Sarri: umile, concreto, poco dedito all'integralismo tattico (che tanto male ha fatto al Napoli nella stagione ormai finitia) e abituato a lavorare splendidamente con il materiale che gli viene messo a disposizione. Anche se non di primissimo piano.
Ma anche queste, come le critiche preventive alla scelta di De Laurentiis, sono soltanto parole. Per i fatti, univoci e oggettivi, c'è il campo. E, almeno lui, non sbaglia mai.
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